9. UN PRANZO DI QUARANTA MINUTI:
KITTY JACKSON PARLA DELL’AMORE,
DEL SUCCESSO E DI... NIXON!
di Jules Jones

 

Le stelle del cinema sembrano sempre basse, la prima volta che le incontri, e Kitty Jackson, per quanto eccezionale in tutto il resto, non fa eccezione.

Anche se bassa non è la parola esatta: lei è minuta, un bonsai di essere umano con un vestito bianco senza maniche; siede a un tavolo in disparte di un ristorante in Madison Avenue, e sta parlando al cellulare. Mentre prendo posto, mi sorride e alza gli occhi al cielo, accennando al telefono. Ha i capelli di quel biondo che si vede ovunque – «colpi di sole», li chiama la mia ex – anche se su Kitty Jackson questo scompigliato miscuglio di biondo e castano pare più naturale e costoso che su Janet Green. Lei (Kitty, intendo) ha un viso di quelli che potrebbero sembrare semplicemente graziosi, che so, in una classe di liceo: nasino all’insù, labbra carnose, grandi occhi azzurri. Eppure, per ragioni che non so mettere a fuoco – le stesse, suppongo, per cui i suoi colpi di sole sembrano superiori ai comuni colpi di sole (quelli di Janet Green) – questo viso per nulla eccezionale risulta straordinario.

È ancora al telefono, e sono passati cinque minuti.

Finalmente si congeda, chiude il telefono riducendolo a un disco delle dimensioni di una mentina e lo ripone in una pochette di pelle bianca. Dopodiché attacca a scusarsi. Mi è subito chiaro che Kitty Jackson appartiene alla categoria delle star carine (Matt Damon) anziché a quella delle star difficili (Ralph Fiennes). Le star carine si comportano come se fossero esattamente uguali a te (a me, in questo caso), affinché tu le trovi simpatiche e ne scriva in toni lusinghieri, strategia che si rivela quasi sempre vincente, con buona pace di tutti quei giornalisti che si ritengono troppo smaliziati per pensare che ottenere la copertina di Vanity Fair c’entri poco o nulla col desiderio che ha Brad Pitt di aprirgli le porte di casa sua. Kitty si scusa per i dodici cerchi infuocati attraverso i quali sono dovuto saltare e per gli svariati chilometri di carboni ardenti che ho dovuto percorrere a piedi nudi per strappare il privilegio di trascorrere quaranta minuti in sua compagnia. Si scusa per aver appena lasciato passare i primi sei di quei minuti parlando con qualcun altro. Questa pioggia di contrizione mi fa ricordare perché preferisco le star difficili, quelle che si barricano dentro il loro essere star sputandoti addosso dalle feritoie. C’è qualcosa che fa pensare a una mancanza di controllo, nelle star che non riescono a essere carine, e l’erosione dell’autocontrollo è la conditio sine qua non del giornalismo che tratta di celebrità.

Il cameriere viene a prendere le nostre ordinazioni. E siccome i dieci minuti di battute spiritose che scambio con Kitty semplicemente non meritano di essere riportati, citerò invece (con quello stile da nota a piè di pagina capace di infondere un aroma di consunte rilegature in pelle nell’osservazione dei fenomeni culturali pop) il fatto che, quando sei una star cinematografica giovane, con i capelli più o meno biondi e un volto fortemente riconoscibile per via di un ultimo film i cui incassi si possono spiegare solo ipotizzando che ogni cittadino americano l’abbia visto almeno due volte, la gente ti tratta in un modo un po’ diverso – a dire il vero completamente diverso – da come tratterebbe, mettiamo, un tizio stempiato, ingobbito, vicino alla mezz’età e dalla pelle leggermente eczematosa. In superficie non cambia nulla – «Desidera ordinare?», e via dicendo – ma appena sotto la superficie pulsa l’isteria che ha colto il cameriere nel riconoscere la fama della mia intervistata. E con una simultaneità che si può spiegare soltanto in termini di meccanica quantistica, nella fattispecie mediante le proprietà delle particelle correlate, quello stesso impulso di riconoscimento si propaga contemporaneamente in ogni angolo del ristorante, raggiungendo perfino quei tavoli così distanti dal nostro da rendere semplicemente impossibile vederci da laggiù.[3] Ovunque, la gente si gira, allunga il collo, protendendosi e contorcendosi, levitando involontariamente dalle sedie mentre reprime il desiderio di avventarsi su Kitty e strapparle ciocche di capelli e indumenti.

Chiedo a Kitty che effetto fa essere sempre al centro dell’attenzione.

«È strano», risponde lei. «Succede così all’improvviso. Ti sembra di non meritarlo».

Che vi dicevo? Lei è carina.

«Suvvia», le dico, dopodiché butto lì un complimento per la sua interpretazione della senzatetto tossica che si trasforma in pistolera/acrobata dell’FBI in Oh, Baby, Oh: il genere di sviolinata che mi spinge a chiedermi se, alla mia attuale professione di intervistatore di star, non preferirei forse morire per iniezione letale. Non ne è un po’ orgogliosa?

«Lo sono stata», risponde lei. «Ma in un certo senso non mi rendevo nemmeno conto di quello che facevo. Nel nuovo film mi sento più...»

«Trattenga il pensiero!», le intimo, anche se il cameriere non ha ancora raggiunto il tavolo, e il vassoio che porta probabilmente non è neppure il nostro. Perché non ho voglia di sentir parlare del nuovo film di Kitty; non potrebbe importarmene di meno, e nemmeno a voi, lo so; la classica tirata sulla difficoltà del ruolo e il rapporto di fiducia instaurato con il regista e quale onore sia stato lavorare accanto a un mostro sacro come Tom Cruise è la pillola amara che dobbiamo mandar giù per avere il privilegio di passare un po’ di tempo in compagnia di Kitty. Ma cerchiamo di rimandarla il più possibile!

Per fortuna è il nostro vassoio (ti servono più velocemente, quando pranzi con una star): una Cobb salad per Kitty; cheeseburger, patatine e Ceasar salad per me.

Un po’ di teoria mentre ci apprestiamo a pranzare: il trattamento che il cameriere riserva a Kitty è in realtà una sorta di sandwich, in cui la fetta di pane inferiore sono i modi annoiati e vagamente leziosi con i quali lui normalmente si rapporta ai clienti, la farcitura è l’anomala eccitazione che prova al cospetto di questa diciannovenne così famosa, e la fetta superiore è il tentativo di contenere e nascondere questa farcitura aliena con una modalità di comportamento che quantomeno somigli a quello strato inferiore di noia e leziosità che ne costituisce la norma. Analogamente, Kitty Jackson possiede una sorta di fetta di pane inferiore che è, presumiamo, «lei», o il modo in cui un tempo si comportava Kitty Jackson, nella Des Moines dove da ragazzina andava in bicicletta, partecipava ai balli scolastici, prendeva voti decenti e, dettaglio davvero intrigante, praticava il salto ostacoli a cavallo, vincendo perfino un numero consistente di nastri e trofei e accarezzando, almeno per un breve periodo, l’idea di diventare fantina. Subito sopra poggia la sua straordinaria e forse un tantino psicotica reazione a questa nuova fama – la farcitura del sandwich – e al di sopra di quella c’è il tentativo di assomigliare allo strato numero uno simulando la propria personalità abituale, o quantomeno precedente.

Sono passati sedici minuti.

«Corre voce», dico, con la bocca piena di hamburger mezzo masticato, nel deliberato tentativo di disgustare la mia interlocutrice, perforando così il suo scudo protettivo di carineria e cominciando a fare meticolosamente attrito sul suo autocontrollo, «che tra lei e il suo coprotagonista sia nato qualcosa».

Questo accenno cattura la sua attenzione. Glielo sparo a bruciapelo, avendo imparato a mie spese che avvicinarsi alle domande personali in punta di piedi dà agli intervistati difficili troppo tempo per indispettirsi, e a quelli carini troppo tempo per glissare, gentilmente e arrossendo.

«Ma non è assolutamente vero!», strilla Kitty. «Tra me e Tom c’è solo una splendida amicizia. Adoro Nicole. Per me è stata un modello. Ho perfino fatto da baby-sitter ai loro figli».

Sfodero il mio Gran Sorriso, una tattica che non ha alcuno scopo se non quello di innervosire e confondere l’interlocutore. Se i miei metodi vi sembrano eccessivamente duri, vi invito a ricordare che mi sono stati assegnati quaranta minuti, quasi venti dei quali sono già trascorsi, e permettetemi di aggiungere una nota personale: se l’articolo fa schifo, vale a dire se non riesce a portare alla luce un qualche aspetto di Kitty che voi non avete mai visto (com’è accaduto, mi dicono, con i pezzi in cui andavo a caccia d’alci con Leonardo DiCaprio, leggevo Omero con Sharon Stone e pescavo molluschi con Jeremy Irons), corre il concreto rischio di essere cassato, abbassando ulteriormente le mie quotazioni a New York e a Los Angeles, e allungando la «curiosa serie di fallimenti che stai inanellando, caro mio» (– Atticus Levi, mio amico e editor, a pranzo il mese scorso).

«Perché questo sorriso?», mi chiede Kitty, ora ostile.

Ecco, vedete? Fine della carineria.

«Stavo sorridendo?»

Lei si concentra sulla sua Cobb salad. E anch’io. Perché ho così pochi appigli per proseguire, così poche vie d’accesso al sancta sanctorum di Kitty Jackson, che mi riduco a osservare e ora a riferire il semplice dato che, nel corso del pranzo, la ragazza mangia quasi tutta la lattuga, all’incirca due bocconi e mezzo di pollo e svariate fettine di pomodoro. Ignorando: olive, roquefort, uova sode, bacon e avocado. In altre parole, tutti quegli elementi della Cobb salad che, tecnicamente parlando, ne fanno una Cobb salad. Quanto al condimento, che lei ha chiesto «a parte», non lo sfiora nemmeno, se non per intingervi un dito, una volta sola, e quindi succhiarselo.[4]

«Le dico cosa penso io», riprendo infine, smorzando il vibrato di tensione che va montando al nostro tavolo. «Penso: diciannove anni. Un film dagli incassi stratosferici alle spalle, mezzo mondo che si prostra ai suoi piedi, in che direzione potrà mai andare, ora? Cosa potrebbe fare?»

Sul volto di Kitty scorgo varie cose: sollievo perché non ho detto qualcosa di peggio, qualcosa su Tom Cruise, e misto a quel sollievo (nonché da esso in parte causato) un fugace desiderio di vedermi come qualcosa di più dell’ennesimo squinternato con un registratore in mano; di vedermi come qualcuno che capisce l’incredibile bizzarria del suo mondo. Quanto mi piacerebbe che fosse così! Nulla desidererei di più che capire la bizzarria del mondo di Kitty, intrufolarmi in quella bizzarria per non riemergerne mai più. Ma il massimo in cui posso sperare è di riuscire a nascondere a Kitty Jackson la nuda impossibilità che tra noi si instauri qualsiasi forma autentica di condivisione, e che sia riuscito a farlo per ventun minuti è già un trionfo.

Perché continuo a citare – a «inserire», come potrebbe sembrare – me stesso in questa storia? Perché sto tentando di estorcere del materiale leggibile da una diciannovenne che sprizza carineria; sto tentando di costruire un racconto che non soltanto dischiuda i vellutati segreti del suo cuore adolescente, ma contenga anche azione, sviluppo narrativo, unitamente a – che Dio mi assista – una qualche parvenza di significato. Ma ho questo problema: Kitty è di una noia mortale. La cosa più interessante, in lei, è l’effetto che ha sugli altri, e siccome caso vuole che l’«altro» la cui vita interiore è quella più immediatamente a disposizione per la nostra indagine collettiva sia il sottoscritto, è semplicemente naturale – anzi, necessario («Ti supplico: fa’ che questo pezzo funzioni e che io non debba fare la figura del coglione per avertelo assegnato» – Atticus Levi, nel corso di una recente conversazione telefonica durante la quale gli avevo espresso la disperazione che mi coglieva all’idea di dover scrivere dell’ennesima celebrità) – che la supposta storia del mio pranzo con Kitty Jackson sia in realtà la storia della miriade di effetti che Kitty Jackson sortisce su di me nel corso del suddetto pranzo. E affinché tali effetti vi risultino remotamente comprensibili, dovete tenere presente che Janet Green, mia ragazza per tre anni e fidanzata ufficiale per un mese e tredici giorni, due settimane fa mi ha scaricato per uno scrittore prevalentemente autobiografico il cui ultimo libro descrive nel dettaglio la sua abitudine adolescenziale di masturbarsi nell’acquario di casa («Perlomeno lui lavora su se stesso!» – Janet Green, nel corso di una recente conversazione telefonica durante la quale ho tentato di farle capire che colossale errore avesse commesso).

«Me lo chiedo in continuazione, cosa succederà ora», dice Kitty. «A volte cerco di immaginarmi come sarà ripensare un giorno a questo momento, e mi faccio domande tipo: dove sarò, quel giorno? Mi sembrerà che questo momento sia stato l’inizio di una vita fantastica oppure... oppure cosa?»

E qual è la definizione di «vita fantastica», nel dizionario di Kitty Jackson?

«Oh, be’...» Risatina. Rossore. Siamo tornati alla carineria, ma a una carineria diversa da quella di prima. Abbiamo avuto uno screzio, e adesso stiamo facendo la pace.

«Fama e fortuna?», la pungolo.

«Un po’ sì. Ma anche solo... felicità. Voglio trovare l’amore vero, e pazienza se suona sdolcinato. Voglio avere dei bambini. Ecco perché in questo nuovo film il mio personaggio lega così tanto con la madre in affitto...»

Ma evidentemente i miei sforzi pavloviani per eliminare dal nostro pranzo la componente promozionale hanno avuto successo, e a questo punto Kitty tace. Non faccio in tempo a congratularmi con me stesso per il trionfo, però, che subito la vedo lanciare un’occhiata, di straforo, al suo orologio da polso (Hermès). Che effetto sortisce sul sottoscritto questo gesto? Ebbene, sento rimestarsi in me un volatile miscuglio di rabbia, paura e desiderio; rabbia perché questa ingenuotta detiene, per ragioni palesemente prive di fondamento, più potere sul mondo di quanto io ne avrò mai, e una volta esauriti i miei quaranta minuti nulla, se non dello stalking penalmente perseguibile, potrà far sì che il mio cammino sotterraneo si incontri di nuovo con il suo, elevatissimo; paura perché, avendo anch’io dato un’occhiata al mio orologio (Timex), ho scoperto che trenta di quei quaranta minuti sono passati, e che non ho, per il momento, ancora nessun «fatto» intorno al quale imperniare il mio articolo; desiderio perché il collo di Kitty è davvero lungo, e circondato da una collanina d’oro sottile, quasi trasparente. Le sue spalle, scoperte dall’ampia scollatura del prendisole, sono piccole e abbronzate e delicatissime, come due piccioncini neonati. Ma a dirla così potrebbero sembrare poco attraenti, mentre invece erano straordinariamente attraenti! Con il termine piccioncini intendo dire che erano talmente belle, quelle sue spalle, che per un attimo ho immaginato di separarne tutti gli ossicini e succhiarne via la carne uno a uno.[5]

Chiedo a Kitty che effetto fa essere un sex symbol.

«Non fa nessun effetto», dice lei, annoiata e infastidita. «Fa effetto solo agli altri».

«Agli uomini, intendi».

«Può darsi», dice lei, e una nuova espressione balena sul suo bel viso e vi si posa, uno sguardo che potrei definire soltanto d’improvvisa stanchezza.

Mi sento così anch’io: d’improvviso stanco. Anzi, stanco in generale. «Cristo, è tutto talmente una farsa», dico, in un momento di incontrollata spontaneità privo di qualsiasi fine strategico, del quale quindi mi pentirò senz’altro nel giro di pochi istanti. «Che senso ha stare al gioco?»

Kitty mi guarda inclinando la testa. Sento che percepisce la mia generale stanchezza, forse addirittura intuendone alcune delle cause. Mi osserva, in altre parole, con compassione. In questo momento mi trovo pericolosamente sul punto di soccombere al rischio più grande, per un giornalista che si occupa di celebrità: permettere all’intervistata di capovolgere il fascio luminoso dell’indagine, nel qual caso non sarò più in grado di vederla. Con una repentina urgenza annunciata da goccioline di sudore lungo la mia stempiatura sempre più abbondante, ripulisco il fondo della mia ciotola di insalata con un enorme tozzo di pane e me lo ficco in bocca come un dentista che sistemi un tampone di cotone. E proprio in quel momento – oh, sì – avverto il fastidioso montare di uno starnuto; eccolo che arriva, non c’è scampo, pane o non pane, nulla potrà fermare l’urlante, simultanea eruzione di ogni cavità del mio cranio. Kitty ha il terrore sul volto. Mentre cerco di darmi una sistemata, si ritrae scostandosi.

Disastro scongiurato. O almeno contenuto.

«Sa una cosa?», le dico, quando infine sono riuscito a inghiottire il pane e soffiarmi il naso, al costo di quasi tre minuti, «mi piacerebbe fare due passi. Che ne dice?»

Al pensiero di poter fuggire all’aperto, Kitty si alza di scatto dalla sedia. E la giornata è perfetta, in fin dei conti, con la luce del sole che prorompe dalle vetrine del ristorante. Ma il suo trasporto è subito stemperato da una quantità uguale e contraria di circospezione. «E Jake?», chiede, riferendosi al suo addetto stampa, che allo scadere dei nostri quaranta minuti apparirà e con un tocco di bacchetta magica mi ritrasformerà in zucca.

«Non può chiamarci e raggiungerci?», domando.

«Ok», risponde lei, facendo del suo meglio per riprodurre l’iniziale moto di genuino entusiasmo, malgrado lo strato intermedio di cautela che nel frattempo si è intromesso. «Va bene, andiamo».

Pago in fretta il conto. Va detto che ho orchestrato la nostra sortita esterna per diverse ragioni: uno, voglio strappare qualche minuto extra a Kitty per tentare di salvare questo articolo e, più in generale, la mia un tempo promettente e ora declinante reputazione letteraria («Secondo me è rimasta delusa dal fatto che non hai provato a scrivere un altro romanzo dopo che il primo non ha venduto...» – Beatrice Green, bevendo tè bollente dopo che mi ero gettato su di lei in lacrime sui gradini della sua casa di Scarsdale, implorando un parere informato sull’abbandono di sua figlia). Due, voglio vedere Kitty Jackson in posizione eretta e in movimento. A tale scopo, la seguo mentre si dirige verso l’uscita, zigzagando tra i tavoli a testa bassa come fanno sia le donne straordinariamente attraenti che le persone famose (per non parlare di quelle che, come Kitty, sono entrambe le cose). Ecco una traduzione verbale della sua postura e del suo passo: So di essere famosa e irresistibile – una combinazione le cui caratteristiche ricordano da vicino quelle della radioattività – e so che tutti voi presenti nulla potete contro di me. Guardarsi vicendevolmente e constatare la rispettiva consapevolezza della mia radioattività e della vostra impotenza è imbarazzante per me come per voi, per cui terrò la testa bassa e mi lascerò fissare in pace. Mentre tutto questo accade, io contemplo le gambe di Kitty, che sono lunghe, considerata la statura modesta, oltre che brune, e non di quel bruno aranciato da centro abbronzatura, ma di un ricco castano fulvo, che mi fa pensare a... be’, ai cavalli.

Central Park si trova a un isolato di distanza. Il tempo finora trascorso è di quarantuno minuti e rotti. Entriamo nel parco. È verde e inondato di luci e ombre, e l’impressione è quella di esserci tuffati insieme in un lago profondo e immobile. «Non ricordo a che ora abbiamo cominciato», dice Kitty guardando l’orologio. «Quanto tempo abbiamo ancora?»

«Oh, ne abbiamo», sussurro. Mi sento come in un sogno. Camminando, osservo le gambe di Kitty (quanto più mi è possibile senza mettermi carponi al suo fianco, idea che peraltro mi sfiora) e scopro che sopra il ginocchio sono coperte da una peluria d’oro finissima. Poiché Kitty è così giovane e ben nutrita, così protetta dalla crudeltà gratuita degli altri, così inconsapevole, per ora, del fatto che raggiungerà la mezz’età e infine morirà (forse sola), poiché non è ancora rimasta delusa da se stessa, non ha fatto altro che stupire se stessa e il mondo con i suoi precoci risultati, la sua pelle – quella sacca liscia, carnosa, dolcemente fragrante su cui la vita scribacchia il resoconto dei nostri fallimenti e della nostra estenuazione – è perfetta. E con «perfetta» intendo che in nessun punto penzola né si affloscia né cede né raggrinzisce né si increspa né si ammassa, vale a dire che la sua pelle è come quella di una foglia, tranne per il fatto che non è verde. Mi è impossibile immaginare che una simile pelle possa avere un odore o una consistenza o un sapore sgradevoli, o che possa essere, per esempio (è francamente inconcepibile), anche solo lievemente eczematosa.

Ci sediamo su un praticello in discesa. Kitty ha diligentemente ripreso a parlare del suo nuovo film, lo spettro del suo addetto stampa in arrivo deve averle ricordato che la promozione del suddetto film è l’unico motivo per il quale si trova in mia compagnia.

«Oh, Kitty», le dico. «Lasciamo stare il film. Siamo qui all’aperto, in un parco, è una giornata splendida. Lasciamoci alle spalle quelle altre due persone che siamo. Parliamo di... di cavalli».

Che espressione! Che sguardo! Vengono in mente le metafore più trite che si possano racimolare: il sole che si apre un varco tra le nuvole, i fiori che sbocciano, l’improvvisa e mistica apparizione di un arcobaleno. È fatta. Sono riuscito a scavalcare o ad aggirare o a penetrare una qualche barriera, arrivando a sfiorare la vera Kitty. E per ragioni che non comprendo, ragioni che certamente si collocano tra i più misteriosi misteri della meccanica quantistica, questo contatto mi risulta rivelatore, urgente, quasi che, nel valicare il crepaccio che separa me da questa giovane attrice, io mi sollevassi al di sopra di un’oscurità dilagante.

Kitty apre la sua pochette bianca e ne estrae una foto. La foto di un cavallo! Con una chiazza bianca a forma di stella sul naso. Si chiama Nixon. «Come il presidente?», le chiedo, ma Kitty accoglie quel riferimento con un’espressione di inquietante vacuità. «Mi piaceva il suono», dice, e passa a descrivere ciò che prova quando dà da mangiare a Nixon una mela, il modo in cui lui la prende tra le mascelle equine e la spacca in un colpo solo, producendo una cascata di succo latteo e fumante. «Lo vedo pochissimo», dice, con sincera tristezza. «Devo pagare una persona che lo cavalchi, perché a casa non ci sono mai».

«Si sentirà solo, senza di te», azzardo.

Kitty si volta a guardarmi. Sono convinto che abbia dimenticato chi sono. Provo l’impulso di spingerla con la schiena sull’erba, e lo faccio.

«Ehi!», strilla la mia intervistata, con una voce smorzata e sorpresa ma non ancora spaventata, non del tutto.

«Fai finta di cavalcare Nixon», le dico.

«EHI!», urla lei, e io le copro la bocca con una mano. Kitty si contorce sotto di me, ma il suo contorcersi è frustrato dalla mia statura – un metro e novanta – e dal mio peso, novantasette chili circa un terzo dei quali concentrati in quella «ruota di scorta» (– Janet Green, durante il nostro ultimo, fallito incontro sessuale) che ho in corrispondenza della pancia, e che la inchioda a terra come un sacco di sabbia. Coprendole la bocca con una mano, inizio a infilare l’altra tra i nostri due corpi sussultanti, fino a quando – sì! – riesco ad abbrancare la cerniera dei miei pantaloni. Che effetto fa sul sottoscritto tutto questo? Be’, siamo stesi su una collinetta a Central Park, un luogo piuttosto appartato e al tempo stesso, tecnicamente parlando, in piena vista. Per cui provo una certa ansia, unita alla sorda consapevolezza che con questo scherzetto sto esponendo la mia carriera e la mia reputazione a qualche rischio. Più ancora di tutto questo, però, provo una folle – che termine usare? – rabbia, probabilmente; come altro spiegare il mio desiderio di sventrare Kitty come un pesce e lasciarne uscire le interiora, o il distinto ma conseguente desiderio di spezzarla in due e affondare le braccia nel puro, profumato liquido che sicuramente vortica in lei? Vorrei spalmarmelo su questa pelle infiammata, «scrofolosa» (ibid.), riarsa, nella speranza, infine, di guarirla. Vorrei scoparmela (ovviamente) e poi ucciderla, o forse ucciderla intanto che la scopo (ma variazioni accettabili su questo obiettivo di fondo potrebbero essere anche «scoparla a morte» e «fino a tramortirla»). Quello che non ho assolutamente interesse a fare è ucciderla e poi scoparmela, perché è la sua vita – la vita interiore di Kitty Jackson – ciò a cui disperatamente aspiro.

In realtà, non faccio né l’una né l’altra cosa.

Ma torniamo a quell’istante: una mano che copre la bocca di Kitty e si sforza di tenere ancorata la sua testa alquanto riottosa, l’altra intenta ad armeggiare con la mia cerniera, che sto facendo una certa fatica ad abbassare, forse per il dimenarsi dell’intervistata sotto di me. Ciò su cui non ho alcun controllo, malauguratamente, sono le mani di Kitty, una delle quali è riuscita a farsi strada fino alla pochette bianca, nella quale è racchiusa una quantità di oggetti: la fotografia di un cavallo, un cellulare delle dimensioni di una patatina, che da alcuni minuti a questa parte ha preso a squillare senza sosta, e una bomboletta contenente una sostanza che devo presumere essere Mace, o forse un qualche tipo di gas lacrimogeno, a giudicare dall’impatto che ha una volta spruzzato sul mio viso: una rovente sensazione di accecamento nella zona oculare, accompagnata da un copioso sgorgare di lacrime, dall’impressione di essere strangolato, da spasmi di soffocamento e da una nausea violenta, fattori che tutti insieme mi spingono a balzare in piedi e piegarmi in avanti in un deliquio di agonia (continuando però a tenere Kitty immobilizzata a terra con un piede), ed è in quel momento che lei si serve di un altro oggetto contenuto nella pochette di cui sopra: un mazzo di chiavi attaccato a un coltellino svizzero, con la cui minuscola e alquanto smussata lama riesce nondimeno a trapassare i miei pantaloni, affondando nel polpaccio.

Io, nel frattempo, mi sono messo a sbraitare e ululare come un bisonte assalito da ogni parte, mentre Kitty è corsa via, con la luce del sole che senza dubbio le starà punteggiando gli arti fulvi, anche se io sono troppo in difficoltà anche solo per guardarla.

Direi che qui finisce il nostro pranzo. Sono riuscito a strappare venti minuti in più, minimo.

Finisce il pranzo, sì, ma cominciano tante altre cose: una comparizione davanti al gran giurì, cui fa seguito la mia incriminazione per tentato stupro, rapimento e aggressione aggravata; la mia attuale detenzione in carcere (nonostante gli eroici sforzi di Atticus Levi di raccogliere i 500.000 dollari necessari a pagare la mia cauzione) e l’imminente processo, che si aprirà questo mese. Lo stesso giorno, per uno scherzo del destino, in cui il nuovo film di Kitty, Le cascate dell’usignolo, uscirà nelle sale di tutto il paese.

Kitty mi ha scritto, qui in prigione. «Mi scuso per le responsabilità che posso aver avuto nel suo crollo psicologico», dice, «e anche per averla acoltellata [sic]». Sopra le i c’erano dei pallini, e alla fine una faccetta sorridente.

Che vi dicevo? È carina.

Va da sé che il nostro piccolo incidente di percorso si è rivelato estremamente proficuo, per Kitty. Titoli in prima pagina, seguiti da un profluvio di accoratissimi articoli di approfondimento, editoriali e opinioni su tutta una serie di temi correlati: la «crescente vulnerabilità dei vip?» (New York Times); la «violenta incapacità di alcuni uomini di gestire i sentimenti provocati da un rifiuto» (USA Today); l’assoluta necessità che i direttori delle riviste effettuino controlli più approfonditi sui loro giornalisti freelance (The New Republic), e la carenza di un’adeguata vigilanza diurna a Central Park.[6]

Kitty, la figura-simbolo ammantata di martirio alla testa di questa carovana, viene già venduta come la Marilyn Monroe della sua generazione, e non è neppure morta.

Il suo nuovo film, di qualunque cosa parli, pare destinato a sbancare i botteghini.

 

[3] Qui mi sono abbandonato a una sorta di sofisticheria, lasciando intendere che le particelle correlate possano spiegare ogni cosa, quando a tutt’oggi esse stesse non sono ancora state spiegate in modo soddisfacente. Le particelle correlate sono «gemelli» subatomici: fotoni creati scindendo a metà un singolo fotone mediante un cristallo, che continuano a reagire identicamente a stimoli esercitati su uno dei due soltanto, pur se separati da diversi chilometri di distanza.
Com’è possibile, si domandano perplessi i fisici, che una particella «sappia» cosa sta accadendo all’altra? E com’è possibile che, quando le persone sedute ai tavoli più vicini a quello di Kitty Jackson immancabilmente la riconoscono, quelle dal cui campo visivo Kitty Jackson è esclusa, che non è pensabile abbiano vissuto l’esperienza di vedere Kitty Jackson, la riconoscano simultaneamente?
Spiegazioni teoriche:
1) Le particelle comunicano.
Impossibile, perché se così fosse dovrebbero farlo a una velocità superiore a quella della luce, contravvenendo quindi alla teoria della relatività. In altre parole, affinché una qualsiasi consapevolezza della presenza di Kitty si diffonda simultaneamente in tutto il ristorante, i clienti seduti ai tavoli più vicini dovrebbero trasmettere, a parole o gesti, il dato della sua presenza ai clienti più distanti, che non possono vederla, e farlo a una velocità superiore a quella della luce. Il che è impossibile.
2) I due fotoni reagiscono a fattori «locali» derivanti dalla loro precedente condizione di fotone unico (così spiegava Einstein il fenomeno delle particelle correlate, definendolo una «inquietante azione a distanza»).
Nemmeno. Perché abbiamo già stabilito che essi non reagiscono l’uno all’altro; reagiscono tutti quanti simultaneamente a Kitty Jackson, che solo una frazione minima di loro può vedere!
3) È uno dei tanti misteri della meccanica quantistica.
Così parrebbe. L’unica cosa che si può affermare con certezza è che, in presenza di Kitty Jackson, tutti noi veniamo messi in correlazione dalla semplice consapevolezza di non essere Kitty Jackson, un dato così brutalmente unificante da cancellare per un attimo tutte le nostre differenze – la nostra inspiegabile tendenza a piangere durante le parate, o il fatto di non essere mai riusciti a imparare il francese, o di avere un terrore degli insetti che davanti alle donne facciamo di tutto per nascondere, o che da bambini amavamo masticare il cartoncino – in presenza di Kitty Jackson smettiamo di possedere questi tratti, e anzi, diveniamo talmente indistinguibili da qualsiasi altro non-Kitty Jackson nelle nostre vicinanze che, non appena uno di questi la vede, tutti gli altri reagiscono simultaneamente.

 

[4] Talvolta la vita ti concede il tempo, la quiete, il dolce far niente* [*in italiano nel testo originale, n.d.t.] necessari a riflettere su questioni che nel rapido corso della vita di tutti i giorni rimangono in larga misura inaffrontate: Con quanta precisione ricordiamo il meccanismo della fotosintesi? Siamo mai riusciti a utilizzare il termine ontologia in una conversazione? Qual è stato l’istante preciso in cui ci siamo leggermente disallineati dalla vita tutto sommato normale che conducevamo fino a quel momento, piegando in modo infinitesimale a sinistra o a destra e imboccando la traiettoria che in ultima istanza ci ha portati nel luogo in cui ci troviamo attualmente, nel mio caso il penitenziario di Rikers Island?
Dopo aver trascorso vari mesi sottoponendo ogni filamento e nanosecondo del mio pranzo con Kitty Jackson a un livello di analisi che farebbe apparire frettolosi degli studiosi talmudici alle prese con il Sabbath, sono giunto alla conclusione che il mio impercettibile e tuttavia decisivo cambiamento di rotta sia avvenuto nell’istante esatto in cui Kitty Jackson ha intinto il dito nella ciotola di condimento per l’insalata «a parte» e se l’è succhiato.
Di seguito, accuratamente districata e restituita a un ordine cronologico, ecco una ricostruzione dell’intreccio di pensieri e impulsi che oggi ritengo abbiano attraversato la mia mente in quegli istanti:
Pensiero 1 (alla vista di Kitty che intingeva il dito e se lo succhiava): È possibile che questa incantevole ragazza ci stia provando con me?
Pensiero 2: No, è del tutto impensabile.
Pensiero 3: Ma perché è del tutto impensabile?
Pensiero 4: Perché è una famosa attrice cinematografica diciannovenne e tu sei «di colpo appesantito, o sono io che lo noto di più?» (– Janet Green, durante il nostro ultimo, fallito incontro sessuale) e hai una brutta pelle e nessuna rilevanza sociale.
Pensiero 5: Lei però ha appena intinto il dito in una ciotola di condimento per l’insalata e se l’è succhiato in mia presenza! Cos’altro può voler dire?
Pensiero 6: Vuol dire che sei talmente fuori dal raggio dell’interesse sessuale di Kitty che i suoi sensori interni, solitamente inclini a reprimere qualsiasi comportamento possa essere interpretato come troppo incoraggiante, o magari provocatorio, come intingere un dito nel condimento per l’insalata e succhiarselo in presenza di un uomo che potrebbe recepirlo come un segnale di interesse sessuale, non sono attivi.
Pensiero 7: Perché no?
Pensiero 8: Perché Kitty Jackson non ti percepisce come «uomo», e dunque stare vicino a te non la fa sentire più in imbarazzo di quanto le accadrebbe in presenza di un bassotto.

 

[5] A coloro che inevitabilmente interpreteranno questa mia fantasia come un’ulteriore dimostrazione del fatto che sono davvero un «imbecille psicopatico», uno «schifoso» o un «maniaco assatanato» (estratti dalla corrispondenza ricevuta in carcere da sconosciuti), posso rispondere soltanto in questo modo: in un giorno di primavera di quasi quattro anni fa, notai una ragazza con le gambe corte e tozze, il busto lungo e stretto e una maglietta rosa a chiazze psichedeliche, che raccoglieva la cacca di un cane con un sacchetto di Duane Reade. Era una di quelle ragazze muscolose che poi si scoprono essere state, alle superiori, nuotatrici o tuffatrici (anche se in seguito venne fuori che non era stata nessuna delle due cose), e il suo cane era uno spelacchiato terrier che sembrava perennemente bagnato, del genere che risulterebbe, anche secondo i parametri più neutrali e oggettivi, impossibile da amare. Ma lei lo amava. «Qui, Whiskers», cinguettava. «Dai, bella». Guardandola, vidi tutto quanto: il piccolo appartamento troppo caldo disseminato di body e scarpette da jogging, la cena ogni due settimane a casa dei genitori, la morbida peluria scura che le cresceva sopra il labbro superiore e che ogni settimana lei schiariva con una crema bianca dall’odore di biscotto. E la sensazione che provai non fu tanto di desiderarla quanto di essere circondato da lei, di ruzzolare dentro la sua vita senza bisogno di muovermi.
«Posso darti una mano?», le chiesi, entrando nella luce del sole dov’erano ferme lei e Whiskers e togliendole delicatamente di mano il sacchetto di Duane Reade pieno di cacca.
Janet sorrise. Fu come veder sventolare una bandiera. «Cos’è, sei pazzo?», disse.

 

[6] All’attenzione del direttore:
In linea con lo spirito da lei espresso in un recente e appassionato editoriale («La vulnerabilità nei luoghi pubblici», del 9 agosto), ed essendo io stesso l’incarnazione, se così si può dire, di quegli «individui mentalmente instabili o in altro modo pericolosi» che lei si dice così ansioso di estirpare dalla vita pubblica all’indomani della «brutale aggressione» da me perpetrata ai danni di quella «giovane star che si fidava troppo», mi consenta di avanzare una proposta che di certo piacerà al sindaco Giuliani, perlomeno: perché non istituire direttamente dei posti di blocco agli ingressi di Central Park, chiedendo un documento di identità a chiunque desideri entrarvi?
Così facendo, si potrebbe risalire ai trascorsi delle persone e valutare la misura di successo o fallimento delle loro vite – se sono sposate o meno, se hanno figli o meno, se hanno avuto successo nel lavoro o meno, se hanno un conto in banca all’attivo o meno, se sono in contatto con i loro amici d’infanzia o meno, se di notte dormono tranquille o meno, se hanno realizzato le vaste e caotiche ambizioni della loro giovinezza o meno, se sono in grado di tenere a bada gli accessi di terrore e disperazione o meno – e, servendosi di questi dati, assegnare a ciascuno un punteggio basato sulle probabilità che «i loro fallimenti personali diano luogo a esplosioni di invidia nei confronti di individui maggiormente realizzati».
Il resto sarebbe semplice: basterebbe digitalizzare il punteggio di ciascuno inserendolo in un braccialetto elettronico da collocare al polso all’ingresso nel parco, e quindi monitorare quei puntini di luce digitale su uno schermo radar, disponendo la presenza di personale pronto a intervenire qualora gli individui non famosi e con un punteggio basso, nelle loro deambulazioni accennassero a violare «la sicurezza e la tranquillità che i vip meritano esattamente come chiunque altro».
Una cosa sola chiedo: che nel solco della nostra venerabile tradizione culturale, l’infamia sia valutata al pari della fama, cosicché, una volta ultimata la mia pubblica stigmatizzazione – quando la giornalista di Vanity Fair che ho ricevuto in prigione due giorni fa (dopo che già aveva intervistato il mio chiropratico e il custode del mio palazzo) avrà fatto del suo peggio, insieme ai programmi televisivi dedicati all’«informazione»; quando il mio processo e la relativa condanna si saranno conclusi e mi sarà infine concesso di tornare al mondo, di stazionare sotto un albero pubblico e toccarne la ruvida corteccia – anche a me, come a Kitty, venga garantito un poco di protezione.
E chi lo sa? Magari un giorno potrei perfino scorgerla, mentre entrambi passeggiamo per Central Park. Dubito che ci rivolgeremmo la parola. La prossima volta preferirei forse mantenermi a distanza, salutandola con un cenno della mano.
Cordiali saluti,
Jules Jones